
Che fine ha fatto la tua attitudine professionale? Quando il talento scompare nella routine
“Quando ti allontani troppo da chi sei davvero, prima o poi ti viene voglia di scappare”
C’è un film che ogni tanto riguardo, il titolo “Che fine ha fatto Bernadette?” , racconta la storia di una donna brillante che, a un certo punto della sua vita, è semplicemente… sparita. Non solo dal mondo, ma soprattutto da sé stessa.
Se l’hai visto, te la ricordi Bernadette? Quella con la frangetta fantastica, il sarcasmo tagliente e un talento fuori scala che però, piano piano, si è spento. Da archistar riconosciuta a creatura semi-domestica in lotta con la muffa del seminterrato, passando per tutti quei ruoli che pensava di dover interpretare: moglie perfetta, madre presente, persona “normale”.
E poi, un giorno, puff. Sparisce. Letteralmente. Prende e se ne va in Antartide, perché quando la distanza tra chi sei e chi credi di dover essere diventa troppa, l’unica soluzione sembra essere la fuga.
L’attitudine perduta: quando il walkman rallenta
Quante volte ti sei chiestə: “Ma io… dove sono finitə?”
È una domanda che frulla nella testa di tanti professionisti, soprattutto quellə che hanno iniziato la loro carriera con grandi sogni e si ritrovano, anni dopo, a chiedersi come diavolo siano finitə in quella scrivania, con quella routine, con quell’agenda che non lə rappresenta più.
Il problema non è che “non ci sentiamo realizzatə” – questa è solo la punta dell’iceberg. Il vero problema è che troppo spesso ci dimentichiamo di partire da noi. Dalla nostra attitudine, quella cosa che ci viene facile, ci diverte, ci accende. Quella che, quando la facciamo, ci fa dire “ecco, qui, sono proprio io”.
L’attitudine è quel talento spontaneo, quella spinta naturale che ci rende unicə. È il nostro modo personale di essere nel mondo, quella naturale inclinazione che ci differenzia dai colleghi e dai competitor. Non è solo “quello che ci riesce bene”, ma quello che ci fa sentire bene. Quando la seguiamo, brilliamo. Quando la ignoriamo, implodiamo.
Con grazia, certo, ma sempre implosione è.
È come quando negli anni ’80 usavamo il walkman e, piano piano, sentivamo che la canzone rallentava, si distorceva e finiva in un “uaunwan” incomprensibile. Le pile si stavano scaricando, ma noi continuavamo ad ascoltare, sperando che la musica tornasse normale da sola.
La trappola degli standard che non ci appartengono
Ma quando iniziamo a inseguire standard che non ci appartengono – il lavoro “sicuro”, la carriera da LinkedIn, l’immagine da Persona Realizzata Con l’Agenda Piena e la Stanchezza Cronica – rischiamo di spegnerci lentamente. Tipo il walkman con le pile scariche, appunto.
Il guaio dell’attitudine è che spesso non ci hanno insegnato a coltivarla. Ci hanno detto che “va bene come hobby, ma mica ci puoi lavorare” oppure la diamo talmente per scontata che la liquidiamo con un “ma no, lo sanno fare tutti”. E così la nascondiamo sotto una pila di doveri e ruoli che non ci rappresentano.
Pensiamo che “essere professionali” significhi uniformarsi, seguire le regole non scritte del nostro settore, vestire la divisa (mentale) che ci si aspetta da noi. E invece, spesso, essere davvero professionali significa proprio l’opposto: portare la nostra unicità, la nostra visione, il nostro modo di fare le cose.
Bernadette era un’architetta geniale, ma ha smesso di progettare case per iniziare a progettare una vita che non le apparteneva. Il risultato? Una creatività sopita, un’energia che si spegne, una persona che non si riconosce più.
Quando l’autenticità diventa un lusso
Viviamo in un’epoca strana. Da un lato, tutti parlano di autenticità, di personal branding, di “essere sé stessi”. Dall’altro, il mondo del lavoro sembra ancora costruito su modelli standardizzati, dove l’originalità è tollerata solo se produce risultati misurabili e immediati.
È un paradosso che molti professionisti vivono sulla propria pelle: vogliono essere autentici, ma temono che la loro vera natura non sia “professionale” abbastanza. Vogliono distinguersi, ma hanno paura di essere giudicati. Vogliono innovare, ma sono intrappolati in sistemi che premiano la conformità.
E così, giorno dopo giorno, la nostra attitudine si assottiglia. Come un maglione di cashmere lavato troppe volte con il detersivo sbagliato: sempre più piccolo, sempre meno riconoscibile.
I segnali di un’attitudine in crisi
Come facciamo a capire quando stiamo perdendo il contatto con la nostra attitudine? Alcuni segnali sono sottili, ma inequivocabili:
- Ti svegli la mattina e la prima cosa che pensi è “ancora un giorno uguale agli altri”
- Senti che stai interpretando un ruolo invece di essere te stessə
- Le tue idee migliori le tieni per te, perché “tanto non le capirebbe nessuno”
- Ti sorprendi a dire “una volta ero più creativo/a”
- Eviti le situazioni che richiedono di mostrare la tua personalità
- Ti senti come se stessi vivendo la vita di qualcun altrə
Sono campanelli d’allarme che non dovremmo ignorare. Perché quando l’attitudine si spegne, si spegne tutto: la motivazione, la creatività, la soddisfazione professionale, persino la capacità di immaginare un futuro diverso.
Il coraggio di tornare a sé stessə
Ritrovare la propria attitudine non è un lusso da anime tormentate. È un gesto di igiene mentale, un atto di rispetto verso noi stessə e verso chi lavora con noi. È il nostro modo di abitare il mondo con dignità, energia e autenticità.
Non serve scappare in Antartide come Bernadette (anche se, detto in tutta franchezza, un po’ di silenzio artico ogni tanto non mi dispiacerebbe). Serve solo iniziare a farsi le domande giuste: “Io, chi sono davvero? E cosa mi fa stare bene davvero?”
Non è una domanda da poco. Richiede coraggio, onestà, e soprattutto la volontà di guardare oltre le aspettative altrui. Richiede di ricordare chi eravamo prima che ci dicessero chi dovevamo diventare.
Tre momenti, un filo rosso
Se pensi di non saper più riconoscere la tua attitudine, prova questo: pensa a tre momenti della tua vita in cui ti sei sentitə “esattamente al posto giusto”. Non serve niente di eclatante. Possono essere piccole cose: un progetto riuscito, una conversazione, un’idea che hai avuto, il modo in cui hai saputo essere di supporto, qualcosa che hai fatto e ti ha dato una scarica di entusiasmo puro.
Scrivi cosa stavi facendo, con chi eri, e come ti sentivi. Poi guarda quei tre momenti: quali elementi ricorrono? Cosa dicono di te, del tuo stile, delle tue inclinazioni naturali? C’è un filo rosso?
Spoiler: sì, c’è sempre. Ma solo se ti fermi a guardarlo.
Quel filo rosso è la tua attitudine. È la cosa che ti rende unicə, che ti dà energia, che ti fa sentire vivə. È quello che hai sempre fatto, anche quando non te ne rendevi conto. È la tua firma nel mondo.
L’attitudine come bussola professionale
In un mondo del lavoro sempre più complesso e in rapida evoluzione, l’attitudine diventa la nostra bussola. Non è un lusso, è una necessità. Le aziende più innovative lo sanno: non cercano cloni, cercano persone che portino una prospettiva unica, un modo originale di vedere i problemi e le soluzioni.
La standardizzazione funziona per i processi, non per le persone. E più il lavoro diventa automatizzabile, più diventa prezioso ciò che non può essere replicato: la nostra unicità, la nostra visione, il nostro modo personale di interpretare il mondo.
Bernadette era un’architetta straordinaria non perché sapeva disegnare bene (quello lo sanno fare in tanti), ma perché aveva un modo unico di immaginare gli spazi, di interpretare i bisogni, di tradurre le emozioni in forma fisica. Quando ha smesso di farlo, ha perso non solo la sua carriera, ma una parte essenziale di sé.
Non è mai troppo tardi per ricominciare
La bella notizia è che l’attitudine non scompare mai davvero. Può essere nascosta, sopita, ignorata, ma è sempre lì. Come un talento che dorme, aspetta solo di essere risvegliato.
Il primo passo è riconoscerla. Il secondo è trovare il coraggio di seguirla, anche quando sembra non essere la scelta più “sicura” o “logica”. Il terzo è iniziare a costruire una carriera che sia davvero nostra, non la copia sbiadita di un modello che non ci appartiene.
Non serve cambiare continente per ritrovare sé stessi. A volte basta cambiare domanda. E iniziare a rispondere sul serio. Perché alla fine, la domanda non è “che fine ha fatto Bernadette?”, ma “che fine ho fatto io?”.
E la risposta, per fortuna, la possiamo ancora scrivere.
Se questo articolo ti ha fatto riflettere sulla tua attitudine professionale e vuoi approfondire come rimetterla al centro della tua carriera, sono qui per accompagnarti in questo percorso di riscoperta. Perché no, non sei solə in questa ricerca, e non è mai troppo tardi per tornare a essere davvero te stessə.
No Comments